LA STORIA

Medioevo

La contea di Conversano fu un feudo che appartenne in successione a quattro caste nobili; esso comprendeva anche il territorio di Castellana e della Selva di Alberobello (dal Seicento); Facevano parte della contea pure i borghi di Casamassima, Castiglione, Noci e Turi. Dalla metà dell’XI secolo, con la dominazione normanna delle regioni meridionali della penisola italiana,  il villaggio di Conversano (fino ad allora chiamato prima Norba e poi Casale Cupersanem) assunse a vero e proprio centro di potere: intorno al 1054 Goffredo d’Altavilla nipote di Roberto il Guiscardo, prese il titolo di comes Cupersani e fece della cittadina il fulcro di un’amplissima contea, estesa per buona parte della Puglia centro-meridionale, tra Bari e Brindisi e fino a Lecce e Nerito (Nardò). L’importanza della corte conversanese nel panorama nobiliare di quegli anni è ben attestata dall’aver ospitato a Conversano per alcuni mesi il duca di Normandia Roberto II detto il Cortacoscia, figlio del re d’Inghilterra Guglielmo il Conquistatore, che era di passaggio in Puglia al termine della prima crociata; Roberto II sposò Sibilla, figlia di Goffredo, e ricevette una dote ampia abbastanza per riscattare l’ipoteca di 10.000 ducati sul ducato di Normandia accesa prima della partenza per la Terrasanta. Intanto, a Conversano, Goffredo confermò i diritti fiscali sull’intero agro della limitrofa Castellana in favore dei monaci benedettini, presenti in Conversano probabilmente dall’VIII secolo. Alla morte di Goffredo (avvenuta nel 1101 secondo Lupo Protospata), la contea andò in eredità a suo figlio Roberto e poi al secondogenito Alessandro. Nel 1132, sconfitto da Ruggero II di Sicilia, Alessandro fuggì in Dalmazia perdendo la contea di Conversano, che 1134 Ruggero II assegnò a suo cognato Roberto I di Bassavilla. Nel 1138 gli succedette il figlio Roberto II (dal 1154 anche conte di Loritello) che vi regnò fino alla morte (1182). Seguì un periodo nel quale il feudo tornò alla dirette dipendenze del regio demanio, con la parentesi del decennio 1197-1207 in cui fu possedimento di Berardino Gentile. Più tardi furono conti di Conversano per quasi un secolo i Brienne 1269-1356), fino alla morte senza eredi del duca d’Atene Gualtieri VI. La contea passò quindi più volte di mano in mano tra molti importanti casati, soprattutto per via matrimoniale: gli Enghien (1357-1381 e 1394-1397), i Lussemburgo (1381-1394 e 1405-1407), i Sanseverino (1397-1405), i Barbiano (1411-1422), gli Orsini (1423-1433), i Caldora (1434-1440) e gli Orsini del Balzo (1440-1455)

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L’ascesa degli Acquaviva d’Aragona

L’ultimo conte Orsini del Balzo era Giovanni Antonio, figlio di Raimondo principe di Taranto e di Maria d’Enghien (che poi avrebbe sposato in seconde nozze Ladislao I d’Angiò). Giovanni Antonio diede in dote l’intera contea di Conversano – che comprendeva i centri di Castellana, Casamassima, Castiglione (centro abitato poi scomparso, tra Conversano e Castellana), Noci e Turi – a sua figlia Caterina, sposa del duca d’Atri Giulio Antonio Acquaviva. Iniziava così nel 1455 il lungo possesso del feudo di Conversano da parte della casata degli Acquaviva che, salvo una parentesi di quattro anni, lo avrebbe detenuto ininterrottamente sino all’abolizione dei diritti feudali del 1806. Giulio Antonio Acquaviva, ritenuto dai contemporanei un valente condottiero, si distinse soprattutto nella battaglia di Otranto contro i Turchi (1481). Quello stesso anno morì in battaglia per un’imboscata, lasciando il feudo in eredità a suo figlio Andrea Matteo. Anche costui eccelse in numerose battaglie; il suo comportamento eroico gli valse il riconoscimento, da parte del re di Napoli Ferdinando I, del privilegio di aggiungere all’arma del suo casato quella reale e di modificare il cognome in Acquaviva d’Aragona. Le sue fortune a corte però furono offuscate dall’accusa di aver preso parte alla cosiddetta congiura dei baroni, tanto che patì la prigione e la temporanea perdita della contea a beneficio del duca di Termoli, Andrea di Capua (1504-1508). Tornato a Conversano, ebbe modo di distinguersi come mecenate, bibliofilo e letterato e fu incluso nell’Accademia di Jacopo Sannazzaro. Morì nel 1529, mentre Conversano era funestata da un’epidemia di peste.

Giangirolamo II Acquaviva D’Aragona – detto il Guercio di Puglia, nacque nel 1600 da Giulio I Acquaviva D’Aragona e da Caterina Acquaviva ed alla morte del padre, avvenuta nel 1616, gli successe nella contea di Conversano, nel Ducato di Noci e nel ducato di Nardò. Di lui la tradizione, concordemente, fornisce un quadro fosco, dipingendolo come un personaggio crudele e sanguinario. In reltà Giangirolamo II dovette essere un abile politico oltre che un ottimo soldato. Scrive, infatti, Notarnicola, esaltandone le abilità militari, che «era versatissimo nelle armi e specialmente nella cavalleria. Nello stesso anno della morte del padre, radunati trecento cavalieri entrò nelle regie milizie e, l’anno seguente, ancora diciasetenne, debellò i turchi che avevano assalito Manfredonia. D’allora in poi, egli fu sempre primo a rispondere ad ogni richiesta del sovrano, con truppe assoldate e condotte da lui medesimo. Personalmente partecipò alle guerre d’Italia, mentre altre compagnie di cavalleggieri inviò a combattre le guerre di Spagna, rimettendovi quattromila ducati annui e l’alienazione dei gioielli di famiglia. Per la sua fama di grande Generale di Cavalleria, fu da Taranto acclamato come suo protettore»; e continua, sottolineandone l’abilità diplomatica,: «a ventisei anni anno, sposò Isabella Filomarino dei Principi della Rocca; donna altezzosa e crudele, che contribuì ad attirargli vieppiù l’odio dei baroni insofferenti del suo carattere e delle sue imprese militari, come pure l’inimicizia dello stesso Vicerè di Medina-Torre. Il quale, da quelli sobillato, giunse ad accusarlo a Filippo IV di alcuni delitti, di aver fondato senza il regio consenso la terra di Alberobello e la villa di Montalbano. Pertanto, nel 1643, fu dal re chiamato in Ispagna per discolparsi. Prontamente vi andò e seppe sì abilmente difendersi, da ritornarsene vittorioso ed ottenere la deposizione del Vicerè. Al Medina-Torre succedette il duca d’Arcos, che, nel 1646 gli conferì il titolo di Conte di Castellana. Giangirolamo gliene seppe grato l’anno seguente, addì sette luglio, salvandolo, con rischio della propria vita, dal furore del popolo in rivolta guidato da Masaniello». Delle Imprese compiute da Giangirolamo II, in particolare sono ricordati i cruenti episodi di Nardò e di Foggia. Così li descrive Notarnicola: «fu allora che, essendo insorte contro il Governo anche città e terre della Puglia, il Vicerè, nominatolo Commissario Generale della Provincia di Bari, gli affidò l’incarico di sedare quei tumulti. Egli, con cinquecento cavalleggieri, partì a spron battuto alla volta di Bari, ove, giunto, apprese che anche Nardò, suo ducato, erasi sollevata, non contro il sovrano, il cui dominio anzi invocava, ma per scuotere il suo proprio giogo feudale. Vi avevano inalberato il regio vessillo, occupato il castello ducale, si erano financo impossessati dei suoi cavalli e validamente fortificati, il 19 e 20 luglio 1647. Gli ambiziosi baroni, i superbi nobili, nonché i canonici erano stati gl’incitatori alla ribellione. Questi ultimi erano offesi pel trono che il Conte, in dispregio all’autorità vescovile, si era arrogantemente innalzato nella cattedrale. Senza frapporre indugio, il Conte corse a Nardò con trecento cavalli e duecento fanti, sperando di prenderla d’assalto. Ma la trovò chiusa nelle sue mura, ben munita di armati e di cannoni. La cinse d’assedio, fidando nella sua prossima resa. Ma così non fu. Visto l’insufficenza delle sue forze ed avendo corso gravissimo pericolo di essere spacciato da una cannonata partita dalle mura, chiese rinforzi di artiglieria a Franceso Boccapiànola, R. Comandante di Lecce, adducendo che egli, per essere al servizio del re, nient’altro voleva che la pace e rimettere Nardò sotto il governo di S.M., come appunto essa richiedeva. In tal guisa cercava di dissimulare la vendetta covata dal suo orgoglio ferito; ma il Boccapiànola non ritenne giusto inviare le armi regie contro una città che aveva innalzata la regia bandiera. Credette invece opportuno di interporre i suoi buoni uffici, con quelli del Vescovo Papacoda di Lecce, per risolvere la vertenza, ed avuto dal Conte la promessa di un magnanimo perdono, fece sì che la città ritornasse sotto il suo dominio. Ma la natura irascibile e vendicativa sopraffece in Giangirolamo l’onore della parola data. Non passo guari, dopo la sua entrata nella città, che, fatti arrestare i ribelli, i fomentatori, nobili e canonici, li fece condannare dal locale Governatore Girolamo Lenti, nocese, alla confisca dei loro beni (calcolati oltre centomila ducati), ai tormenti e, poi, al capestro, chi alla fucilazione chi alla decapitazione. Parte di essi furono giustiziati nella stessa Nardò, parte in Conversano, nella Stretta delle Forche. Queste crudeltà e le sevizie operate sui cadaveri delle vittime, -le teste dei canonici, munite di berrette clericali, furono collocate, quale monito feroce, sui rispettivi stalli del coro, mentre i loro corpi furono decorticati e le pelli rivestirono schienali di poltrone, – coprirono di fama esecranda il Guercio di Puglia. Da Nardò, Giangirolamo e suo figlio Cosmo passarono a domare molte altre città e terre insorte di Puglia e Basilicata. Ridusse all’obbedienza taranto e Massafra, Castellaneta, Laterza, Gioja, Acquaviva. Mentr’era qui, Giovanni D’Austria, bastardo di Filippo IV, espressamente lo incaricò di riconquistare Foggia. Lasciata Acquaviva sottoil presidio di Cosmo e di duecentocinquanta cavalli, si diresse verso la sua nuova meta. Passando per Bitonto, che erasi schierata col partito francese del duca di Guisa – aspirante alla riconquista del Reame dei D’Angiò, – la sottomise col solo fare schierare soto le mura la sua artiglieria. Preceduto dalla fama delle sue crudeltà e conquiste, proseguì vittorioso riannettendo: Corato, Canosa, Barletta, Spinazzola, Lavello e Venosa. Sotto Cerignola, fu accolto con atto di omaggio e di sottomissione dai maggiorenti e dal capitolo della terra; parimenti dai foggiani fu ricevuto con le insegne calate». Dopo questi episodi Giovanni D’Austria affidò a Giangirolamo II altre imprese militari importanti che il Conte di Conversano portò a termine con successo: la conquista di Portolongone, dell’ isola d’Elba e della fortezza di Piombino, possessi del Reame di Napoli caduti in mano dei francesi. Per questi eminenti servizi il Vicerè d’Arcos inviò al sovrano, in Spagna, una relazione esaltatrice dei suoi grandi meriti (1648). Ma a cancellare la macchia delle atrocità commesse in Nardò, come a spegnere gli odi che i Baroni, ed in particolare il Duca Caracciolo di Martina Franca (Preside delle province di Lecce e di Basilicata) e il Duca d’Andria, covavano nei suoi confronti, per il modo in cui aveva domato le insurrezioni delle terre di loro giurisdizione, -odi, la cui eco era giunta fino al Re-, non valsero né le sue benemerenze, né quella relazione laudatoria: Filippo IV, infatti richiamò Giangirolamo II a Madrid, nel 1649, perchè si discolpasse delle gravi imputazioni a suo carico, mentre inviò a Conversano il Consigliere Varayz per condurvi l’istruttoria. Le lungaggini del processo protrassero il suo esilio a Madrid per sedici anni, durante i quali, egli conservò il gradi di Generale e fu strenuamente difeso dal suo fedele Segretario conversanese Paolo Antonio de’ Tarsia. Dopo questo lungo periodo Giangirolamo, tornato libero, anche se non assolto, mentre faceva rientro in Italia, morì improvvisamente nel Principato di Catalogna il 14 marzo 1665.

Isabella Filomarino dei Principi della Rocca
Nipote del cardinale di Napoli e proveniente da una delle più prestigiose famiglie napoletane. A lei, “donna di sommo avvedimento e valore”, passò il compito di curare gli interessi dello “Stato” acquaviviano di Conversano, dopo la disgrazia politica del marito. E dovette farlo con sicura abilità e competenza, giacchè proseguì e realizzò i grandi progetti in cui era impegnata la casata conversanese. Con Giangirolamo e Isabella il nesso tra potere e cultura divenne assai stretto, tanto che la loro città si caratterizzò come centro di cultura, simile ad una corte di tipo rinascimentale italiano. E dunque, commissionare opere d’arte di grande qualità significava non solo procurarsi fama e autocelebrazione, ma soprattutto concepire un progetto che potesse convogliare sulla contea l’attenzione dei potenti. Quello perseguito dai conti Acquaviva fu un chiaro “progetto politico”, prima che culturale. La cultura e la committenza artistica erano, infatti, il presupposto per affermare il prestigio della casata; la presenza di letterati ed artisti presso la corte comitale costituiva un motivo per accrescere il potere personale dei signori committenti. In questo progetto rientra la commissione del ciclo pittorico sulla Gerusalemme liberata per la Galleria del Castello al pittore Paolo Finoglio, fatto venire in Conversano da Napoli intorno al 1634.